Dentro il nostro tempo - Note di critica


Giovanni Faccenda

Cinquant’anni di pittura di un artista coerente e severo

“Bisogna cercare ciò che gli uomini nascondono, frugare fra i silenzi dei loro volti, scoprire la verità che li assilla di notte come di giorno. Un pittore, serio, non può che dipingere questo”.

Ottone Rosai, da una lettera a Dino Caponi datata 4 ottobre 1943

 

Cinquant’anni di pittura di un uomo, saggio, che ha scelto di rimanere “normale” sono, anche, il percorso artistico - cronologicamente esteso e sostanzialmente vasto - di un pittore che non ha avuto bisogno di ricorrere a stranezze e bizzarrie, oggi tanto di moda, per conquistare una sua precisa e significativa identità. Fra i meriti che è doveroso riconoscere a Ferdinando Todesco, questo - di non poco conto - è certamente fra i primi: la coerenza e la severità con la quale egli si è costantemente dedicato al vertiginoso mestiere del dipingere meritano, infatti, l’apprezzamento più convinto di chiunque ne guardi o riguardi, ora, la ricca varietà degli esiti.

Nei diversi cicli che hanno scandito l’evolversi della sua opera pittorica - le stazioni ferroviarie, i rottami, i notturni, i campi di grano, finanche i più recenti interni domestici di sapore hopperiano -, Todesco ha saputo esprimere più d’una toccante riflessione esistenziale: sull’umanità in genere e le ansie e le trepidazioni, sepolte nella profondità dell’anima, che inducono moltitudini di persone a un torrido silenzio.

Strade, stazioni, fumosi interni sono così diventati, nelle tavole dipinte dall’autore, una metafora vibrante di quella realtà inquieta che egli ha continuato a indagare con grande efficacia introspettiva, sezionando momenti, individuali o collettivi, nei quali la vita rivelasse sottovoce verità di sentimenti: angosce latenti, solitudini pensose, distacchi dovuti a partenze evidentemente dolorose quanto necessarie. Fino a trovare, Todesco, un suo apice espressivo - rilevante e nondimeno emblematico - nella rappresentazione di un’attesa che odora di speranze e di sogni, memoria e nostalgia, senso, ultimo, del nostro effimero tragitto terreno. Fra evanescenti illusioni, ove, salvifica, continua a regalarci qualche certezza una meraviglia: la pittura.

Firenze, settembre 2013

 


 

Ivano Mariotto

Arte come esperienza di verità

In cima ai pensieri una stazione ferroviaria, binari e cavi elettrici in fuga verso un improbabile “oltre”; vagoni in sosta avvolti dall’opaco chiarore notturno; uno scalo-merci prospetticamente fissato dal cavalcavia; periferie urbane sullo sfondo di ciminiere operose; ammassi di rottami come esito estremo di una attività produttiva inconsulta, orientata al consumo piuttosto che all’uso consapevole. Fin qui, una proposta di statica fissità, trasfigurata da un materico colore acrilico sotto il peso incombente di cieli magmatici.

Poi, d’improvviso, il paesaggio si anima. L’attenzione è rivolta all’andirivieni di protagonisti inconsapevoli e al fardello segreto delle loro storie. È tempo di gettare lo sguardo sulle figure umane (non solo il pendolare abitudinario, ma anche l’immigrato spaurito e chiuso in se stesso, il giovane sbandato con la testa fra le mani, il sognatore in cerca di fortuna) che stazionano sulla banchina in attesa di un incontro o di un’ultima coincidenza. Sospinti lì da moventi insondabili, questi esili manichini allungati, sospesi tra cielo e terra, tratteggiano a tavolozza completa entro spazi ridotti il forzoso coesistere di insuperate solitudini di massa.

Da ultimo, una tentazione sublime attraversa la mente dell’artista: squarciare il velo delle apparenze e fissare sulla tela il volto di tanti poveri cristi, al fine di sondarne l’anima in un discreto personale rapporto “io-tu”. Il volto è, per sua natura, il modo irriducibile secondo il quale l’altro essere può offrirsi allo sguardo nella sua identità. Solo le persone hanno un volto. A ben vedere una “cosa” non si presenta mai personalmente: non ha identità perché è un essere senza volto; quindi è normale su di essa esercitare violenza, afferrarla e disporne a piacimento. È una prerogativa dell’arte, però, dare un volto anche alle cose; ma chissà, se in questo tentativo di assegnare loro una identità per altro, felice contraltare alla pervasiva riduzione odierna degli uomini a cose -, l’artista non sia preso talvolta dal sospetto che la grandezza della sua creazione paga il prezzo della menzogna.

In tal modo si struttura il “viaggio”, metafora della vita. Ma questo è innanzi tutto il viaggio dell’artista, scandito dalle tappe della sua ricerca.

Se il viaggio è, per definizione, l’intervallo che un soggetto umano per-corre tra un inizio e una/un fine (fine del viaggio o fine del soggetto? ), l’attenzione del pittore, inizialmente tutto preso dalla fascinazione per la strada ferrata, fissata nella sua immobilità, stabilità, ordine ed equilibrio, si volge poi al “soggetto” del viaggio. “Chi” è colui che viaggia? È un viaggiatore (in senso proprio), ...un viandante, ... un nomade? In tal modo il paesaggio si muta drammaticamente: movimento, dinamicità, fluttuazioni, instabilità emergono come elementi narrativi di un “mondo” che tale è perché “ha storia ed è storia”: storia della vita, storia di esseri umani. È proprio così che anche noi ci percepiamo: abitatori di un mondo in frenetico divenire, scandito e misurato dal “tempo”, nostra condanna ma anche occasione e opportunità, quando così vorrebbe l’artista si fosse tentati, contro le odierne dominanti forze avverse, di considerare la stazione come un “contenitore di vite in evoluzione”.

Ma non siamo chiamati a guardare semplicemente dal di fuori, o a spiegare senza lasciarci coinvolgere; siamo invitati invece a comprendere, intendere, capire o almeno, soltanto, ad interrogarci. L’incontro con l’arte è sempre una esperienza di verità. Il dipinto, come ogni altra forma artistica, apre un orizzonte di significati nel quale siamo sollecitati ad entrare. In esso è leggibile una “struttura” che trascende la soggettività dell’autore e che si presta ad una operazione ermeneutica sempre aperta a successive interpretazioni di senso. Autore ed interprete sono entrambi “messi in gioco” dall’accadere di una esperienza di verità sempre rinnovata.

Mi domando allora se la storia abbia una direzione, se la successione degli eventi abbia ancora un senso (e un verso); e cerco tra la folla un tipo di “viaggiatore” che, sicuro di sé, fissi lo sguardo alla meta (una meta garantita ontologicamente, ...liberamente scelta, ... eticamente fondata?), tale che, una volta raggiunta, cancelli la fatica del viaggio e compia per lui alla fine ciò che all’inizio è stato voluto. Vorrei che

questo luminoso andare diritti e fiduciosi alla meta, retaggio felice di una età ormai tramontata, fosse ancora oggi un messaggio possibile, ma resto perplesso e dubbioso di fronte a tutta questa umanità instabile che mi si para dinnanzi sulla tela.

Cerco allora, nel mucchio, la figura di un “viandante” solitario, cioè di un soggetto che, divenuto consapevole di non poter trovare quiete in un porto sicuro, accetti di abbandonarsi romanticamente alla corrente della vita, conscio del carattere provvisorio di ogni meta e disposto ad essere, come in un mare aperto, integralmente “navigante” o, nel caso, anche “naufrago”. Indugio a pensare che per lui il viaggiare sarebbe nient’altro che una inevitabile trappola mortale, in grado di frustrare in partenza ogni nostalgia dell’oltre. Questo intravedo nel musicante di strada che, con il suo carico leggero e tanta “voglia di viaggiare”, mi volge le spalle.

Invece, è il “nomade”, straniero o apolide, che in queste pitture mi si para dinnanzi e mi interpella. Per lui, esporsi all’insolito e all’imprevisto della via non è già una scelta deliberata, ma un “destino”: un destino capace di convocare su di sé significati e sensi del vivere rispetto ai quali l’interno e l’esterno, l’essoterico e l’esoterico, il conscio e l’inconscio trapassano “simbolicamente” l’uno nell’altro. Nessun confine si profila dinanzi al nomade; la terra che egli calca è un campo aperto, senza punti di riferimento, senza mete, senza pace. Il “simbolo” è mistero e i misteri non si interpretano, non si lasciano leggere (con buona pace di psicanalisti e semiologi!); piuttosto ai misteri ci si accosta soltanto, con estremo pudore. “Orsù! Coraggio! Vecchio cuore!”, sono tentato di dire a quanti accettano “in toto” il rischio di vivere, fino allo smarrimento di se stessi, fino alla follia. Ma poi mi pento della mia inconsulta pretesa di non essere in gioco e penso che la “crisi” è sempre in agguato per tutti e per ciascuno: nell’altro mi vedo, rispecchio la fragilità del mio “io”, di ogni “io” che, per quanto saldo, integro, intatto agli occhi del mondo, è percosso dalle forze telluriche e pre-spirituali di una cosmica “volontà” inconscia. Mi chiedo, pertanto, quando mai noi tutti ospiti della vita potremo essere padroni in casa nostra.

Allora, mi soffermo a pensare a questa forza oscura che ci proietta sui binari di una qualche stazione del globo terrestre e immagino altre vite. E quale che sia la risposta, nostalgicamente rivolta al passato o timidamente aperta al futuro, mi volgo a considerare integralmente la crisi del soggetto, la sua disarticolazione e il suo svuotamento, che gravano come macigni sul tempo presente. Alla perdita delle certezze fa eco, a questo punto, lo scacco della parola e/o la babele dei linguaggi. Soltanto l’arte, che è metafora evoluta e simbolo non-discorsivo della vita e della storia, riesce ancora ad articolare per noi l’ineffabile con il suo fragoroso silenzio.

Così leggo i “pensieri su tela” dell’artista.

11 novembre 2014

 


 

Francesco Bletzo

Il mondo delle cose, mondo della poesia: la realtà come racconto

Una stazione, la sera. Una donna che cammina nella notte. Una città sotto la pioggia, i fari delle macchine che passano, un viso che guardandoci sembra interrogarci.

Queste sono le storie che ci racconta con la sua pittura Ferdinando Todesco, ma a dispetto di una apparente semplicità, si tratta sempre di micro vicende alle quali l’artista conferisce uno statuto emblematico. E l’emblema, pensiamo a quello di una famiglia nobile, di un comune o di una impresa ha lo scopo di concentrare, racchiudere e suggerire molte realtà.

Durante la sua lunga carriera, Todesco ha dipinto i depositi di macchine, le linee dei treni, la bellezza delle stazioni, le partenze dei viaggiatori, la città di notte: temi pittorici essenzialmente metropolitani, dove la storia raccontata sembra rifuggire deliberatamente dal cliché del pittoresco.

E così nei suoi quadri può improvvisamente squillare un telefono, un altoparlante forse indicherà la prossima stazione, una televisione mostrerà il notiziario della sera, la ragazza bionda girerà l’angolo, qualcuno sul treno parlerà con il vicino, o si assopirà per un momento.

E tuttavia questa visione del reale non è mai urlata, non vuole essere denuncia ma è invece umana osservazione sempre pervasa da una mitezza dello sguardo, da una delicatezza del racconto, e di conseguenza da una assoluta mancanza di giudizio moralistico.

Le cose succedono, sembra dirci l’artista, in un silenzio e in una sospensione del tempo che ricordano il sogno, che ci conducono in un osservatorio del reale che ha a che vedere con l’infanzia, con un territorio intatto. E infatti uno degli artisti di riferimento di Ferdinando Todesco è proprio Hopper, il celeberrimo pittore americano cantore dei teatri vuoti, dei bovindi inondati di sole, dei bar notturni.

Per raccontare questo suo-nostro mondo Todesco usa un registro tecnico apparentemente semplificato, quasi povero: si tratta di una materia pittorica che ricorda la stesura scabra e sfumata del gesso, con una voluta semplificazione della figura umana, che sembra citare il livello della illustrazione più che quello della pittura “alta”. Ma proprio in questo procedimento di sottrazione sta la raffinatezza della sua pittura, che viene attuata con uno sguardo dall’interno, in–genus, nel genio cioè nello spirito delle cose: senza cioè apporvi una distanza critico-etica e interpretativa.

E forse questo sguardo puro è un nume tutelare, una fiammella guida della sua indagine sull’umano, sui suoi momenti di solitudine, di silenzio. Qui, sembra suggerirci il pittore, le persone e le storie non devono necessariamente inserirsi in una trama che possiamo capire: a volte i quadri di Todesco sono un fotogramma di una narrazione che intuiamo essere più lunga e forse più complessa. Cosa farà la donna discesa dal treno? In quale casa arriverà quel passante? Cosa avviene nella luce di quella finestra accesa, la sera? Cosa si diranno le persone quando avranno spento i computer? Preparerà la cena la mamma che pedala sulla cyclette di fronte alla televisione?

Tuttavia, benché siano di carattere esistenziale, non sono domande poste con modalità angoscianti, perché tutti abbiamo attraversato lo spazio emotivo di questi momenti apparentemente banali, nei quali sembra, in un attimo di poesia, catalizzarsi il senso segreto delle cose e direi infine anche della vita.

Verona 2014

 


 

Massimiliano Bertolazzi

Un piacevole incontro

Sono seduto nello studio - laboratorio di Ferdinando Todesco. Ho appena visionato i suoi “lavori” quando mi vengono mostrati due autoritratti.

“Sei il primo a cui li faccio vedere!”

Chi conosce Todesco sa che è uomo di poche parole, riservato, quasi timido.

Le due tele sono lì per terra, addossate ad altri dipinti.

I miei occhi però sono ancora pieni di altre visioni; tutti temi “forti”, mai banali anche se solo apparentemente ripetitivi. Dialoghi e pensieri dipinti che coinvolgono l’osservatore. E dire che tutti conosciamo le stazioni, i treni che arrivano e partono, l’ansia dell’attesa o il frenetico andirivieni; le luci, le insegne pubblicitarie, ma, dopo aver osservato i “Pensieri su tela” di Todesco è difficile se non impossibile riguardare tutto senza subire il contagio della sua ricerca.

Ci sono dipinti, oggi, che si lasciano piacevolmente guardare ma che non incidono minimamente sullo spettatore, altri, come quelli di Ferdinando Todesco, dove l’artista, reinventando il soggetto, ha la capacità di proporlo filtrato obbligandoci ad entrare nel suo mondo restandone contagiati.

La pittura che rifugge dal semplice compiacimento e non insegue le mode ha la forza dell’esclusività. Il dizionario pittorico di Todesco non è semplicemente attuale ma universale: consumismo, nucleare, cementificazione, mancanza di dialogo dentro e fuori la famiglia, mercimonio, solitudine, integrazione... rivivono senza la pretesa d’insegnare ma si propongono come documento d’indagine, di analisi dei fenomeni.

Todesco osserva, analizza, sollecita ma non si erge a censore.

Il suo studio è tappezzato da dipinti che nascondono le pareti mentre l’odore del colore inebria: una processione di figure s’alzano, s’allungano, si torcono in una danza a volte lenta, solitaria, altre volte spasmodica dove tutto, sfiorato dal tempo, fugge.

Gli autoritratti, però sono ancora lì davanti: li osservo e mi osservano.

So che il pittore attende un parere ma prendo tempo.

Mi faccio raccontare della scuola magistrale, dell’insegnante di disegno e storia dell’arte... degli inizi. Il discorso si sposta agli anni dell’infanzia, al profumo della campagna, quella di Arcole e Veronella, al carretto dell’acqua che bagna le strade polverose, al gelataio che, in cambio di un uovo fresco, offre un’unica pallina, di un unico sapore. E i campi, il grano, i papaveri, i fiordalisi e la trebbiatrice, quell’enorme marchingegno rosso e polveroso e il sudore dei contadini coll’immancabile fazzoletto e cappello...

Poi il silenzio scalza la nostalgia.

“Ti confesso - gli dico - che questi due quadri mi spaventano. Non sono io ma loro a guardarmi”.

Il pittore, per nulla meravigliato, comincia a parlarmi di sé, del presente che gli scappa di mano, della temporanea incapacità di programmare ma... la pittura, ancora la pittura che gli offre forza, coraggio, voglia di dirsi, di mostrarsi.

Quasi mai - caro Ferdinando - mi è capitato di aver difronte quadri di questa forza espressiva e se pur diversi nella forma, accomunati da un unico penetrante sguardo indagatore che è beffardo, ironico, sarcastico e benevolo insieme.

Non è il pittore ad offrire la sua ricerca ma un’inversione dei ruoli. Lo spettatore è cercato, indagato, scrutato. Non ha più la corazza della distanza che lo autorizza a giudicare. Si sente “nudo” con lo sguardo del pittore-osservatore addosso.

“Dipingi ancora - per favore - Ferdinando!”

Giugno 2013

Massimiliano Bertolazzi
Un piacevole incontro
Sono seduto nello studio - laboratorio di Ferdinando Todesco. Ho appena visionato i suoi “lavori” quando mi vengono mostrati due autoritratti.
“Sei il primo a cui li faccio vedere!”
Chi conosce Todesco sa che è uomo di poche parole, riservato, quasi timido.
Le due tele sono lì per terra, addossate ad altri dipinti.
I miei occhi però sono ancora pieni di altre visioni; tutti temi “forti”, mai banali anche se solo apparentemente ripetitivi. Dialoghi e pensieri dipinti che coinvolgono l’osservatore. E dire che tutti conosciamo le stazioni, i treni che arrivano e partono, l’ansia dell’attesa o il frenetico andirivieni; le luci, le insegne pubblicitarie, ma, dopo aver osservato i “Pensieri su tela” di Todesco è difficile se non impossibile riguardare tutto senza subire il contagio della sua ricerca.
Ci sono dipinti, oggi, che si lasciano piacevolmente guardare ma che non incidono minimamente sullo spettatore, altri, come quelli di Ferdinando Todesco, dove l’artista, reinventando il soggetto, ha la capacità di proporlo filtrato obbligandoci ad entrare nel suo mondo restandone contagiati.
La pittura che rifugge dal semplice compiacimento e non insegue le mode ha la forza dell’esclusività. Il dizionario pittorico di Todesco non è semplicemente attuale ma universale: consumismo, nucleare, cementificazione, mancanza di dialogo dentro e fuori la famiglia, mercimonio, solitudine, integrazione... rivivono senza la pretesa d’insegnare ma si propongono come documento d’indagine, di analisi dei fenomeni.
Todesco osserva, analizza, sollecita ma non si erge a censore.
Il suo studio è tappezzato da dipinti che nascondono le pareti mentre l’odore del colore inebria: una processione di figure s’alzano, s’allungano, si torcono in una danza a volte lenta, solitaria, altre volte spasmodica dove tutto, sfiorato dal tempo, fugge.
Gli autoritratti, però sono ancora lì davanti: li osservo e mi osservano.
So che il pittore attende un parere ma prendo tempo.
Mi faccio raccontare della scuola magistrale, dell’insegnante di disegno e storia dell’arte... degli inizi. Il discorso si sposta agli anni dell’infanzia, al profumo della campagna, quella di Arcole e Veronella, al carretto dell’acqua che bagna le strade polverose, al gelataio che, in cambio di un uovo fresco, offre un’unica pallina, di un unico sapore. E i campi, il grano, i papaveri, i fiordalisi e la trebbiatrice, quell’enorme marchingegno rosso e polveroso e il sudore dei contadini coll’immancabile fazzoletto e cappello...
Poi il silenzio scalza la nostalgia.
“Ti confesso - gli dico - che questi due quadri mi spaventano. Non sono io ma loro a guardarmi”.
Il pittore, per nulla meravigliato, comincia a parlarmi di sé, del presente che gli scappa di mano, della temporanea incapacità di programmare ma... la pittura, ancora la pittura che gli offre forza, coraggio, voglia di dirsi, di mostrarsi.
Quasi mai - caro Ferdinando - mi è capitato di aver difronte quadri di questa forza espressiva e se pur diversi nella forma, accomunati da un unico penetrante sguardo indagatore che è beffardo, ironico, sarcastico e benevolo insieme.
Non è il pittore ad offrire la sua ricerca ma un’inversione dei ruoli. Lo spettatore è cercato, indagato, scrutato. Non ha più la corazza della distanza che lo autorizza a giudicare. Si sente “nudo” con lo sguardo del pittore-osservatore addosso.
“Dipingi ancora - per favore - Ferdinando!”
Giugno 2013

 


 

Anna Soricaro

Sfide da deserto

Testo pubblicato a cura della galleria Zerouno di Barletta

... Ferdinando Todesco predilige una figurazione che ha per filo conduttore il viaggio: la voglia di evadere e cambiare che non riesce ad attuare con facilità spinge l’artista a delineare continuamente personaggi e scene vicino alla ferrovia. Chi lo immagina attento a scrutare i dettagli alla stazione non sbaglia. Osservatore attento di natura, si lascia ispirare da ogni particolare per delineare figure filiformi in contesti che appaiono già sbiaditi, avvolti dall’aurea magica del sogno.

Intento a chiedersi dove vada e da dove venga tutta quella gente, con delicatezza Todesco individua un’area trasognata in cui la gente si saluta, tiene il bagaglio, stringe un giornale, è in fila. Gente anonima diviene protagonista di un mondo ideale in cui sognare senza risvegli. Maestro d’arte, Todesco si avvale del classico mezzo della pittura per lasciare un segno indelebile di un presente frenetico ed ermetico. La grandezza dell’artista sta nel delineare scene diverse dall’atmosfera uguale, ma non solo: il tratteggio raffinatissimo, la scelta dei toni e la cardinalità di esili protagonisti che giganteggiano sulla scena, rendono la trattazione elegante, ricercata e accurata.

Barletta, 10 febbraio 2013

 


 

Flavia Soldato

Todesco ricorda Giacometti, Hopper e Sironi

Un fluire di stati in continua mutazione giace nell’uomo, con un sentimento pirandelliano di smarrimento e dolore. È il movimento perpetuo e continuo della vita che Ferdinando Todesco raffigura nell’immagine metaforica dei treni di una stazione, luogo di partenze e di arrivi in ogni direzione.

Todesco descrive l’occasione del viaggio come momento intimista di ricostruzione dell’identità, smembrata da una devastante società, che induce l’individuo a racchiudersi e isolarsi nella mediocre condizione quotidiana. In uno spazio metafisico, per fuggire e trovare il senso non vano dell’esistenza, Todesco riconosce nel passeggero la Persona e le ripone la sua singolare attenzione.

L’artista trasforma i viaggiatori in manichini, con volti indefiniti e figure allungate, come le filiformi sculture di Alberto Giacometti, estremamente fragili, ma pervase dall’innata e potente energia che consente loro di non cadere. Ferme, in attesa di decidere, sono sospese in una transitoria incertezza; altre, ritratte di spalle, diventano responsabili di una scelta e padrone del proprio destino.

Un modo di vivere completamente libero è il desiderio dell’artista che, nelle opere dei “Notturni”, manifesta una visione opprimente e malinconica della città. Il traffico ai semafori, i fari delle macchine, lo smog, le vetrine, i cartelli pubblicitari, tutto si estende su di un solo colore, il blu di Ives Klein, puro e immateriale, per esprimere con più intimità, nella profondità della notte, il realismo di Edward Hopper: la solitudine umana.

Richiamandosi alle periferie di Mario Sironi, invase da una atmosfera ferma e straniata, Todesco trasmette un senso di immanenza e di alienazione, una solenne interpretazione introspettiva della città, privata da qualsiasi riferimento naturalistico. Il consumismo immerge e plasma l’uomo in un automa intento a progettare e l’artista ha l’arduo compito di tutelare la sua appartenenza, rievocando il filosofico concetto cartesiano di esistenza: il pensiero.

Nelle opere intitolate “Rottami” Todesco raffigura le automobili, elementi di contemporaneità, in ammassi di relitti, annullando il loro simbolo di agiatezza e di apparenza nella rinata bellezza, oltre il tempo e la memoria dell’individuo. La loro moltitudine è segnata dal carboncino e da raffiche cromatiche; soffuse, invece, nelle morbide stesure dello sfondo metropolitano, oramai evanescente. La centralità che Todesco dedica a questi relitti è nella loro storia, un valore che lo stesso Arman ripone nei suoi cimeli, che restano nella mente oltre il loro disuso.

Ancora una volta il filo conduttore è il viaggio e nei “Campi di grano” è il viaggio della propria vita che Todesco racconta. Ricordi lontani di paesaggi sereni, avvolti da una estesa luminosità e da una brezza percepibile dove la voce della natura diventa amica. Con l’esattezza e la vitalità dei colori evoca il ricordo e soprattutto un momento di infiniti attimi irripetibili, perché vissuti cogliendo il valore della propria esistenza e sfidando l’usura del tempo e il suo stato effimero. Un luogo perduto che Todesco riscopre in un’isola esclusiva, cui ama sempre riapprodare è la pittura; e da qui l’artista finalmente dichiara il proprio “Io”.

ArtetivuLab (2011)

 


 

Maria Pia Codato

La stada ferrata, i viaggiatori, i sentimenti nelle opere di Todesco

“Divincolarsi dalla quotidianità, fuggire verso l’altrove, in completa libertà. Questa la scelta del pittore Ferdinando Todesco, che ama, novello Ulisse, l’esplorazione, la ricerca, la conoscenza.

Originale l’allestimento delle sue opere inaugurato oggi alle 12 nell’atrio della stazione ferroviaria di Padova, mostra che resterà aperta fino al 23 gennaio (orario 11-17).

Diceva bene il critico d’arte Paolo Rizzi: “Todesco non ama tanto raffigurare paesaggi romantici e amori sotto la luna, affronta la tematica delle stazioni ferroviarie, delle strade nella notte, dei rottami, delle periferie, degli scali merci. Raramente appaiono figure e laddove appiono assomigliano a dei manichini dolenti, infreddoliti. Non solo, ma prevalgono, nella sua sintassi pittorica, i fasci prospettici, i contorni marcati, le linee di fuga... Eppure dai quadri promana un’armonia che è fatta di forme sì, ma anche di colori. In questo senso Todesco appare immerso nella temperie sentimentale veneta”.

Ed è l’artista stesso, che ha lo studio a San Bonifacio, Verona, che dipinge da quarant’anni, a spiegare l’evoluzione delle sue scelte”. Nel tempo la mia attenzione si è spostata dalla strada ferrata che evoca il viaggio, dice Todesco, ai soggetti del viaggio: le persone. Di queste mi affascina ciò che non si vede. Mi chiedo quale sia la molla che le ha portate alla stazione: il lavoro, un progetto, un fallimento, una fuga, la disperazione, la speranza, un sogno. Vedo e dipingo una umanità composita, i cui membri stanno forzatamente vicini, per lo spazio limitato, ma lontani, diffidenti, deboli e soli di fatto.

Per rispetto, non fotografo ma trasformo i viaggiatori in manichini, figure allungate e vaghe, simbolo delle loro ancora non trovata identità”.

Poi va in profondità: “Mi piace pensare che c’è un momento nella vita in cui ogni persona si trova metaforicamente alla stazione: le decisioni importanti sono, secondo me, delle stazioni da cui ripartire. La stazione sotto questo punto di vista è anche un contenitore di vite in evoluzione, di sentimenti, di sogni, di adempimenti da assolvere, di vittorie e di sconfitte”.

Per condividere queste riflessioni, per leggere i pensieri su tela di Ferdinando Todesco, basta andare in stazione.

Dal gazzettino di Padova del 13 gennaio 2009

 


 

Paolo Rizzi

Le stazioni dei nostri sogni

Mi pare di averli visti tante altre volte. Anzi mi pare siano entrati dentro di me, nella mia memoria organica, come qualcosa di imprescindibile. Ma se prima sfuggivano come mere sensazioni, ora i quadri di Ferdinando Todesco sono qui tangibili e vivi. Li potrei persino toccare, potrei passare i miei polpastrelli su quella materia morbida e sciolta, densa, e pur stemperata nei delicati pigmenti del colore.

Non è facile trovare, oggi, un pittore che si avvicini in tal modo alla nostra atmosfera veneta. Troppe interferenze agiscono sulla formazione del gusto, troppi manierismi si accavallano. Quanti riescono a tornare “puri come fanciulli”? Ammesso che ciò possa verificarsi, Todesco sa bene cosa sia un’utopia; ma sa anche quanto sia essenziale “vivere in modo completamente libero”. Per lui (e sono parole sue) “dipingere è sempre stata un’isola cui amo sempre tornare ad approdare”.

Ma attenzione: Todesco non ama tanto raffigurare paesaggi romantici e amori sotto la Luna.

Troviamo prevalentemente nei suoi temi (soprattutto gli ultimi) la tematica delle stazioni ferroviarie, delle strade nella notte, dei rottami, delle periferie, degli scali merci.

Raramente appaiono le figure: e là dove appaiono assomigliano a dei manichini dolenti, infreddoliti. Non solo: ma prevalgono nella sintassi pittorica, i fasci prospettici, i contorni marcati, le linee di fuga, una sorta di movimento verso l’al di là. Le luci stesse, specie quelle notturne sulle autostrade, inducono ad una visione mai ferma, e perciò carica di elettricità. Non c’è nulla di fissato, di contemplativo. Eppure dai quadri promana un’armonia che è fatta di forme sì, ma anche di colori. In questo senso Todesco ci appare immerso nella temperie sentimentale veneta. Forse quei fasci e intrecci di linee servono ad ingabbiare l’immagine, a riportarla in un mondo onirico dove tutto sfuma, si fa sfocato e morbido, sciolto nelle luci opache.

Quei mucchi di macchine a rottami sono brandelli di un amaro vissuto carico di pacate simbologie. Del resto tutta la pittura di Todesco si volge al simbolo. Egli stesso, a proposito delle sue stazioni ferroviarie, dice: “mi piace pensare che c’è un momento della vita in cui ogni persona si trova metaforicamente alla stazione: le decisioni importanti sono, secondo me, delle stazioni da dove partire”. I binari diventano così “strade del distacco”. Può essere, come dice ancora Todesco, che ci sia chi vede nei suoi quadri una “voglia di fuggire”; ma è una fuga verso altri mondi, più puliti del nostro. La fantasia ci aiuta a realizzare i nostri sogni, le nostre nostalgie.

Dicembre 2005

 


 

Giorgio Trevisan

Il viaggio filo conduttore dei dipinti di Todesco

Ferdinando Todesco, pittore autodidatta di San Bonifacio, espone gli esiti del suo serio impegno artistico alla galleria “la Torretta” di vicolo Balena (di Verona).

I quadri dipinti da questo singolare pittore annunciano periferie industriali, campi ferroviari pieni di vagoni in sosta e di linee elettriche, sfasciacarrozze e altri luoghi dove si ammassano le merci scartate, immagini che appartengono pienamente al mondo contemporaneo che l’autore vive e trasferisce sulle superfici delle sue opere.

Appare abbastanza evidente quanto il pittore guardi con interesse ai grandi affreschi sironiani, alle sue interpretazioni della società del proprio tempo, alla potenza espressiva sviluppata, sia nelle tele che su ampie superfici murali, alle sue ormai storiche periferie.

Nelle immagini dipinte da Todesco sembra affiorare una sorta di melanconia esistenziale, di sguardi e di pensieri impegnati a comprendere e rappresentare una realtà laterale, poco visitata, per molti addirittura sconosciuta.

Nei suoi quadri il disegno gioca un ruolo importante, attorno ai suoi impianti strutturali si compongono colori soffusi, toni degradanti stesure morbide come se le immagini dipinte non potessero discostarsi da quelle di una città - scrive Vera Meneguzzo - che si profila nello sfondo, pronta ad ingoiare, digerire ed espellere altre storie, altre vite, altri percorsi”.

Sembra di trovarsi di fronte a pensieri dipinti che rinviano a viaggi reali ricordati dai treni appunto, dalle macchine sfasciate.

Dal Giornale L’Arena del 15 febbraio 2001

 


 

Vera Meneguzzo

Pittura astratta o figurativa?

Si cerca ancora, con rassegnata ansia di non incontrarla; si cerca nelle mostre che pullulano ovunque, negli studi degli artisti, sulle tele dei pittori di strada, la vecchia arte detta “figurativa”. Quasi per una esigenza di rassicurazione che la forma riconoscibile ancora esista in questo mondo a soqquadro, pronta a convalidare la nostra grandezza-pochezza di uomini.

Arte fuori tempo? Arte controtendenza? Idiozie! Noi siamo ancora nelle cose, e abbiamo bisogno di ritrovarci in esse, di vederle, di toccarle, di sentirne il profumi o i miasmi, oggi più di ieri, per non essere irreversibilmente vorticati da questo tempo telematico, informatico, multimediale.

E, come sempre, è compito dell’artista evidenziare gli smarrimenti, denunciare gli stravolgimenti, riaffermare il valore non sostituibile della nostra, sempre messa a dura prova, umanità.

Lo svolge anche Ferdinando Todesco con una pittura forte e delicata, nelle declinazioni di un acrilico terroso, rotto qua e là da un pugno di colore urlante. Immagini a volte disertate dall’essere umano, a volte popolate da figurette smilze, atte con pochi tratti, quasi piccole stampelle a sorreggere abiti da mascherata, immerse in una luce di tramonto grigio.

Ferdinando Todesco tiene a dire di aver condotto, sempre, una vita semplice, normale fra lavoro e famiglia.

Ma chi può negare che il viaggio di Ulisse si possa svolgere anche tra la cucina e il corridoio di casa, fra lo studio e la stanza da letto, inventandovi la stessa avventura dell’ignoto?

E allora la nave può chiamarsi anche pittura, prua puntata verso l’esplorazione, la ricerca, la conoscenza. Salpando magari da immagini a portata di tutti: treni fermi sui binari, stazioni, viaggiatori, oppure depositi di automobili ormai defunte.

Vagoni come contenitori da riempire con progetti e utopie.

Stazioni come orizzonte e confine, intrecciate di cavi e binari su trame di provvisorietà. Arrivi e partenze fra l’essere e il divenire, fra staticità e moto. L’uomo di spalle non attende certo la sua destinazione d’uso.

Ma è forse una fine del viaggio, la metafora dei cumuli di macchine sventrate, snaturate, sfigurate che Todesco dipinge emulsionando forma e colore? Oppure è un messaggio ecologico contro lo spreco, l’usa e getta, contro la svalutazione del ricordo? Sullo sfondo si profila quasi sempre la città, pronta a ingoiare, digerire ed espellere altre storie, altre vite, altri percorsi.

Il nostro pianeta è come un organismo vivente che elimina le scorie dei beni di consumo, il “dejà vu”, gli oggetti obsoleti.

Ma dentro a quelle vecchie macchine, quante storie di incontri, attese, asimmetrie di vita e morte! E forse fra la stoffa dei sedili bucati dalle molle, c’è ancora il calore di un bacio, su un frammento di vetro, una morchia di fumo per dialoghi nervosi.

E il filo conduttore è sempre il viaggio che non ha meta o fine.

Gli oggetti viaggiano nella mente, resistono oltre il loro disuso, per tutto il tempo che vorrà l’individuale memoria. Li abbiamo intrisi nel passato prossimo e remoto del nostro vissuto.

Verona, 14 gennaio 2001